Al Congresso delle famiglie di Verona abbiamo assistito solo all’ultimo attacco al diritto all’aborto da parte delle associazioni pro-life. I feti di gomma dentro a sacchetti di plastica regalati ai partecipanti durante l’evento, squallida manifestazione di un pensiero retrogrado e colpevolizzante nei confronti delle donne, non è che la ciliegina sulla torta di un pensiero aberrante che ancora oggi trova spazio nelle menti degli italiani.
Quando l’aborto era reato
La sfida, l’ennesima, alla legge 194, che quarantuno anni fa ha depenalizzato l’interruzione di gravidanza, è ripartita da qui. Il vescovo di Verona, Giuseppe Zenti, ha persino bollato l’aborto come un “delitto”. È bene ricordare che prima di questa data, storica per la libertà delle donne, l’interruzione volontaria di gravidanza era reato. Una donna che si procurava un aborto rischiava da uno a quattro anni di reclusione. Chi lo operava, nei confronti di una donna consenziente, rischiava da due a cinque anni.
Aborto in diminuzione
Secondo un trend ormai consolidato dagli anni Ottanta, le interruzioni volontarie di gravidanza in Italia sono in progressiva diminuzione. Questo per via sia del calo demografico sia della maggior consapevolezza nell’uso dei contraccettivi e dell’aumento dell’uso della contraccezione d’emergenza. Attualmente, il tasso di abortività del nostro Paese è fra i più bassi tra quelli dei Paesi occidentali. E sempre più donne ricorrono all’interruzione di gravidanza mediante aborto farmacologico, possibile entro sette settimane dall’ultimo ciclo mestruale. In tutti gli altri Paesi europei le settimane sono nove.
Sì, ma…
Sposando un approccio che non si fatica a definire punitivo, il Consiglio Superiore della Sanità prevede il ricovero ordinario di tre giorni per una pratica che altrove si svolge in regime di day hospital, anche in consultori e ambulatori. Fortunatamente sono diverse le regioni che da subito si sono opposte, come l’Emilia Romagna, il Lazio e la Toscana, poco dopo la Puglia e l’Umbria e, a breve, la Lombardia. Altrove, per evitare di passare la notte in ospedale, le donne devono firmare le dimissioni anticipate dopo l’assunzione del primo farmaco, il mifepristone. Poi devono prenotare un nuovo ricovero entro due giorni per la fase due: l’assunzione della prostaglandina che permette l’espulsione del feto.
Percentuali bulgare per gli obiettori di coscienza
In Italia è elevatissimo anche il numero di ginecologi obiettori di coscienza (68,4%), con gravi differenze tra Nord a Sud. Si passa dal 96,9% del Molise all’88,1% della Basilicata, all”86% in Sicilia ma anche in provincia di Bolzano, al 17,6% della Valle d’Aosta. Tuttavia, non è solo da noi che è in atto una guerra che non risparmia colpi, talvolta difensiva, di trincea, subdola, altre d’assalto, plateale, volgare, urlante, esplicita. L’Alabama vuole punire l’aborto con 99 anni di carcere. La ministra delle donne, della famiglia e dei diritti umani del Brasile, Damares Alves, ha dichiarato pochi giorni fa che la legalizzazione dell’aborto non può essere un tema del suo ministero.
Il caso Croazia
In Croazia, a due passi dall’Italia, dove la cosiddetta pillola del giorno dopo è arrivata da poco, è possibile effettuare l’aborto farmacologico solo in due ospedali. Di fatto, per molte donne l’unica possibilità di interrompere una gravidanza rimane l’aborto chirurgico. Qui, il raschiamento post-aborto viene effettuato senza anestesia.
La campagna #PrekinimoŠutnju (“Rompi il silenzio”)
A Zagabria e dintorni opera da anni Roda, associazione di genitori che ha lanciato una campagna per sensibilizzare su un tema così importante e delicato. #PrekinimoŠutnju (“Rompi il silenzio”) ha portato moltissime donne croate a denunciare questa pratica disumana, dopo il licenziamento di una dipendente del Ministero della Salute che aveva osato raccontare la sua storia.
Colpa della cultura patriarcale
In un’intervista a LetteraDonna, la leader e portavoce di Roda Daniela Drandic ha spiegato che il raschiamento senza anestesia è evidente espressione di una società patriarcale, come quella croata (ma potremmo dire lo stesso per la nostra), ed è essenzialmente dovuta al fatto che nella cultura medica locale non viene data importanza al sollievo dal dolore. Poi c’è il fatto che più la donna soffre, più dimostrerebbe la sua forza.
Prassi crudele e dolorosissima
Dalle testimonianze personali di migliaia di donne condivise sui social durante la campagna #PrekinimoŠutnju, tantissime raccontano di essere rimaste traumatizzate da questa prassi crudele e dolorosissima. Ma il raschiamento non è l’unica pratica collegata al sistema riproduttivo che viene fatta in assenza di anestesia. Succede lo stesso per il prelievo di ovociti per fertilizzazione in vitro, per la sutura post-parto, per la biopsia di tessuti del sistema riproduttivo e per l’aborto chirurgico. Sì, avete letto bene: anche l’interruzione di gravidanza chirurgica viene eseguita facendo soffrire le donne, tra dolori lancinanti, svenimenti ed emorragie molto rischiose.
Daniela spiega che “alle donne viene detto che non c’è altro modo di fare queste procedure in sicurezza, oppure non viene direttamente detto nulla e vengono operate così, senza nemmeno parlare di antidolorifici. Nella nostra cultura tutto questo è diventato normale, ma non lo è affatto”.
Grazie a #PrekinimoŠutnju, le donne croate ora sanno di dover chiedere l’anestetico, perché diversamente non verrà loro somministrato, e gli operatori sanitari sono decisamente più controllati. In generale, #PrekinimoŠutnju ha posto al centro del dibattito nazionale le famiglie, in tutte le loro forme, e la loro libertà di scelta, affinché possano decidere, informate, ciò che è meglio per loro stesse.
Miriam Carraretto