Di Zar Abdul
Viviamo in un’epoca dove le informazioni circolano ad una velocità inimmaginabile fino a qualche anno fa. Un’epoca nella quale l’ignoranza non dovrebbe essere scusata, e l’individuo ha gli strumenti per istruirsi meglio a scuola, così come in modo indipendente sui libri, utilizzando internet o attraverso letture di e-book.
La società occidentale è multietnica da decenni, inclusa quella italiana, e quindi resta da chiedersi il perché della mancanza di confronto quando si tratta di certi temi che riguardano proprio le minoranze etniche.
L’uso della blackface è uno di questi argomenti, e francamente trovo riduttivo parlarne solo quando il tal programma televisivo permette ai concorrenti di farne uso per interpretare personaggi neri.
Prima di tutto vorrei far capire che cosa sia la blackface, e perché fosse e sia considerato tutt’ora così offensivo, denigratoria e razzista.
La blackface è una pratica che veniva usata da interpreti bianchi e consisteva nel pitturarsi/truccarsi la faccia di nero in modo caricaturale ed esagerato, per interpretare una persona nera in maniera del tutto grottesca e negativa.
Nacque negli Stati Uniti dopo la guerra civile, nella prima metà del 1800, quando veniva usata dagli attori di teatro per impersonare i neri e rappresentandoli come pigri, analfabeti, schiavi, ladri, codardi ed inclini alla violenza.
Thomas Dartmouth Rice interpretò Jim Crow nella sua commedia Jump Jim Crow (Salta Jim Crow), un’opera interpretata interamente con la blackface che lo rese celebre in tutto il paese.
Divenne così celebre che il corpo di norme pensate per la segregazione razionale che durò cent’anni a partire dal 1868, fu chiamata Jim Crow Laws.
Da lì in avanti, questa pratica ebbe un ruolo importante nello sviluppo della società americana (e non solo) anche grazie a film storici come “Nascita di Una Nazione” e “The Jazz Singer“. Impersonare neri in maniera negativa era considerato il modo più efficace di fare intrattenimento, dunque non solo era legittima e largamente accettata, ma era addirittura redditizia nel modo dello spettacolo.
La blackface, dunque, non si limita a pitturarsi la faccia di nero e a denigrare i neri, ma rappresenta una società che credeva nella schiavitù, viveva del lavoro e del sangue dei neri e trovava opportuno dare alle norme di segregazione razziale il nome dell’opera per eccellenza che diede il via all’uso di questa pratica.
David J. Leonard, professore di studio comparativo delle etnie all’Università dello Stato di Washington, definisce la blackface come “an assertion of power and control” (un’affermazione di potere e controllo). Con questo intende dire che l’essere bianchi concede il potere e il privilegio di interpretare altre etnie liberamente secondo ciò che si crede essere giusto. Libertà di essere altri, quando e come si vuole, e di esserlo in maniera negativa. Potere e controllo, appunto.
Per la storia che si porta dietro, per l’utilizzo che ne hanno fatto, per tutto ciò che le persone nere vivono ancora tutt’oggi, in tantissimi paesi (USA, Canada, UK e Francia in testa) la blackface è ampiamente bannata, così ad esempio, come la “N” word.
In questi paesi c’è una chiara volontà di porre un freno a queste pratiche che comunque continuano ad accadere. Seguono poi proteste che portano a licenziamenti, a provvedimenti disciplinari e a dimissioni da parte degli autori di blackface o di chi fa uso pubblicamente nella “N” word.
La società italiana è ancora ben lontana dal capire la gravità di queste pratiche e dell’imparare ad avere la giusta sensibilità quando si tratta di queste tematiche.
Prendiamo due esempi da analizzare: l’uso della blackface nel programma televisivo “Tale e Quale Show” (talent show trasmesso dalla Rai) e la presa di posizione di Gino Sorbillo (proprietario di una catena di Ristoranti-Pizzeria presenti in diversi paesi) in supporto al calciatore del Napoli, Koulibaly dopo alcuni insulti razzisti ricevuti durante una partita.
Il fulcro di “Tale e Quale Show” è quello dell’interpretazione di altri artisti da parte dei concorrenti.
Dunque, diverse volte, quando è stato il momento di cantare canzoni di cantanti neri si è fatto serenamente uso della blackface come se non solo fosse normale, ma fosse addirittura una cosa positiva.
La rivendicazione del diritto di usare la blackface fatta dai concorrenti e dal programma poggiava sul fatto che in quei casi lo si stava usano con lo scopo di omaggiare gli artisti.
Ciò che deve essere chiaro è che non ci può essere, in alcun modo, un uso positivo della blackface.
Tralasciando il discorso che c’è una preoccupante mancanza di artisti neri (o di altre minoranze) in questi talent show che potrebbero interpretare ed omaggiare altri artisti neri senza ricorrere a questa pratica, trovo sia piuttosto contraddittorio usare un metodo altamente offensivo per omaggiare un artista che sarebbe offeso da tale performance.
Il senso di omaggiare sta proprio nel fare qualcosa che esalti e celebri la grandezza di un fatto o di una persona. Scegliere il modo peggiore per farlo non significa forse ottenere il risultato opposto?
Ed è difficile anche capire la necessità di usare, a tutti i costi, la blackface quando ci sono altri modi per rendere omaggio in maniere dignitosa, senza far uso di una pratica che rievoca la schiavitù e il colonialismo i cui effetti si vedono tutt’ora.
È un po’ come fare un evento per celebrare gli ebrei morti durante la Seconda Guerra Mondiale, ed iniziare tale evento facendo il saluto romano sul palco, o appendere simboli della svastica sperando di rievocarne il significa originale (del tutto positivo).
Sono due cose che non posso coesistere.
Gino Sorbillo, invece, si fece fotografare con la faccia dipinta di nero, tenendo un cartello che recitava: “Siamo tutti Koulibaly, abbasso il razzismo”.
Ora, credo che ci siano pochi dubbi sulle buone e nobili intenzioni di sostegno al calciatore, oltre che di lotta al il razzismo. Il problema, tuttavia, rimane sempre il metodo, che come tale è inconciliabile con qualsiasi fine celebrativo o positivo.
Questi, ed altri fatti, fanno capire l’enorme mancanza di informazione e di dibattiti su ciò che è la storia dei neri, sugli effetti del colonialismo e della supremazia bianca, e su come la società dovrebbe iniziare ad evolversi. Una mancanza non più ammissibile in un paese più multiculturale rispetto a ciò che sembra in superficie, o rispetto a come viene rappresentato dai media.
Tra i 5,6 milioni di cittadini stranieri regolarmente soggiornanti nel Paese da anni, gli italiani di origine straniera e i figli nati dalle “relazioni miste”, c’è un numero considerevole di popolazione che deve essere tenuta in considerazione e la cui voce va ascoltata. Non si può proseguire con abitudini, modi di dire e di fare vecchi, offensivi e razzisti considerando solo ed unicamente le proprie intenzioni. Non può più essere normale e tollerabile giustificarsi con le buone intenzioni quando si incorrono in atti o fatti discriminatorie.
Ho preso ad esempio questi due eventi perché è importante capire che nonostante si possano avere nobili intenzioni, si può comunque finire per fare qualcosa di razzista.
Preoccupa, però, il fatto che in Italia, non solo non si chieda scusa quando vengono sollevate queste problematiche, ma in genere gli autori passano alla difesa del proprio diritto di dire o fare certe cose.
Non siamo ancora al punto di mettere in discussione tutto ciò che sembra giusto dall’esclusivo punto di vista di un bianco.
Questa continua ed eccessiva attenzione verso le intenzioni di chi compie l’atto è il cuore di che cosa significhi avere il privilegio:
“Poco importa se ciò che faccio ti offende, ti umilia o denigra, io lo faccio con buone intenzioni, per gioco, per divertimento o per omaggiare, e dunque è solo questo ciò che conta. L’importante è che io abbia buone intenzioni”.
Questo è il messaggio che passa, ed è proprio questo il problema del privilegio di chi, nato bianco, può permettersi di usare la blackface, la N word, di fare battute e ridere del colore o della cultura di altre etnie senza tenere conto di chi subisce tutto questo.