– Di Francesca de Carolis –
Il 2022 viene ricordato da Marco Damilano come l’anno in cui “i corpi sono tornati a scrivere l’agenda politica globale”. In un bell’articolo che allarga lo sguardo dai corpi che fanno la rivoluzione in Iran, a quelli sui quali si giocano le sorti della guerra ai confini dell’Europa, ai corpi migranti dal Mediterraneo ai Balcani…
Corpi, contro dittature, dei governi e dei sistemi, che, esposti al sacrificio, diventano inno alla libertà, al pensiero, alla vita…
E anche se certo molto avrebbe spostato lo sguardo e il discorso, mi aspettavo chissà perché di leggere di un altro corpo, che non è massa, ma a noi tanto vicino. Certo, altra storia, altro discorso… ma non riesco a non pensare ad Alfredo Cospito, e al suo corpo messo in gioco nelle nostre galere, per denunciare l’assurdità di una pena assolutamente sproporzionata rispetto al reato compiuto. Luigi Manconi ricorda che la proporzionalità è la base del diritto, ed è questa proporzionalità che viene oggi offesa. Con una pena che sembra essere piuttosto condanna di un pensiero che si vuole morto.
Oggi Alfredo Cospito, in quel buco nero che è la sezione del 41bis del carcere di Sassari, è al suo settantasettesimo giorno di sciopero della fame, ha perso 35 chili (un’enormità) e il suo corpo, il suo cuore, dicono i medici, potrebbe cedere da un momento all’altro.
Di corpi prigionieri avevo letto ne “Il bosco di Bistorco”, un testo che cito spesso perché è uno dei più interessanti, complessi, profondi libri scritti sulla contenzione. In un capitolo, dedicato a come “l’istituzione manipola, mutila e distrugge l’identità del corpo del recluso e come il recluso si auto mutila per affermare la propria identità”, si spiega un paradosso che ne deriva: il suicidio come estrema scelta di libertà e di vita. “Darsi la morte prima di diventare un morto vivente”.
Ma non è solo questo. L’automutilazione estrema, per usare un eufemismo, che Cospito ha scelto è un urlo che diventa anche difesa della libertà di pensiero. Estremo quanto volete, il suo, ma che non ha ucciso nessuno, e che non giustifica il regime di morte (perché questo è il 41bis) nel quale il suo corpo è stato sepolto. E questo suo corpo ora oppone a una giustizia impossibile da riconoscere tale. Estrema risposta a una estrema deriva giustizialista. Difronte alla quale, benché non innocente, Cospito diventa piuttosto vittima.
Forse non ci importa nulla di lui. Forse un anarchico, e tutta la “nebulosa” del pensiero antagonista, è cosa lontana da noi. Ma non ascoltare il grido che viene da quel suo corpo che si sta consumando significa non capire che quanto gli sta accadendo è cosa grave per tutti noi. Per tutti noi, anche se ben accomodati in salotti buoni. Ché i confini di quel che piace o non piace a chi tira le fila del pensiero “ufficiale” sono talmente mobili…
Non so quanto Cospito lo pensi, ma sono convinta che quel suo corpo è comunque messo in gioco per tutti noi.
E mi sembra, nonostante tutte le differenze che volete, di spazio, di tempi, di motivazioni… che c’è un filo rosso che unisce tutti i corpi del mondo di questi tempi messi in gioco in opposizione a qualsivoglia potere, quello del nostro anarchico compreso.
E’ un errore culturale e politico pensare di fermare i corpi, scrive Damilano pensando ai mondi in rivolta. E’ un errore culturale e politico pensare di fermare, con il corpo di un anarchico, quello che non ci aggrada, mi permetto di aggiungere. Soprattutto se lo si fa calpestando principi su cui dovrebbe reggersi la nostra giustizia.
Perché non è solo la vita di un anarchico a essere in pericolo in queste ore.
Lo è la credibilità della Giustizia tutta. Di questa nostra Giustizia che, se nulla si smuove, e in fretta, morirà con Alfredo Cospito dietro il blindato di quella cella…