Il grave impatto dell’industria tessile – in particolare della fast-fashion – non è più un mistero: tonnellate di vestiti acquistati a un bassissimo costo, per poi finire al termine di ogni stagione in discarica, a generare inquinamento. Inquinamento che parte già prima però, e che spesso ci portiamo addosso. Quello della discarica è infatti solo l’ultimo nodo, di un tessuto che nasce, si immerge, si tinge nel pieno della tossicità. A partire dalle materie prime, che sono quindi uno dei maggiori focus della campagna Detox di Greenpeace: un pericolo tanto per l’ambiente, quanto per l’essere umano.
Obiettivo “Detox 2020”: non è la dieta in vista dell’estate, e nemmeno un impegno da dimenticare passata la stagione. Greenpeace fa irruzione sulle passerelle della moda internazionale, per ottenere vestiti “più puliti”. E nel farlo, fornisce persino una propria “ricetta”, fatta di impegno da parte delle aziende, ma soprattutto trasparenza e tracciabilità.
Il grave impatto dell’industria tessile – in particolare della fast-fashion – non è più un mistero: tonnellate di vestiti acquistati a un bassissimo costo, per poi finire al termine di ogni stagione in discarica, a generare inquinamento. Inquinamento che parte già prima però, e che spesso ci portiamo addosso. Quello della discarica è infatti solo l’ultimo nodo, di un tessuto che nasce, si immerge, si tinge nel pieno della tossicità. A partire dalle materie prime, che sono quindi uno dei maggiori focus della campagna Detox di Greenpeace: un pericolo tanto per l’ambiente, quanto per l’essere umano, perchè possono alterarne il sistema riproduttivo e quello ormonale.
Non è questione quindi, di essere “fanatici ambientalisti” per cogliere l’allarme: è ognuno di noi infatti, nelle nostre stesse vite, a risentire degli effetti di un’industria tessile estremamente tossica.
Nonostante circolino parecchie statistiche infondate, l’industria tessile è senz’ombra di dubbio una fra le più inquinanti al mondo. A confermarlo è il New Standard Institute, che proprio quelle notizie false si impegna a contrastare, per dare un quadro più veritiero rispetto all’impatto della moda (l’Istituto stima attorno all’8% il contributo di emissioni di gas serra del settore scarpe/abbigliamento). In un’epoca in cui ci vestiamo letteralmente, più o meno consapevolmente, di plastica – sotto forma di nylon, poliestere eccetera – non è difficile immaginare il legame fra industria petrolifera e tessile. Oltre ai materiali, i nostri vestiti consumano energia (per lo più da combustibili fossili), emette sostanze nell’ambiente durante le varie fasi di produzione, e proprio queste sono al centro della campagna Detox di Greenpeace.
Il video della campagna Detox di Greenpeace (attivate i sottotitoli):
Lanciata nel 2011, dopo cinque anni era riuscita a riunire un’ottantina di aziende nel mondo, di cui 27 appartenenti al distretto tessile di Prato, all’interno del quale è nato così il Consorzio Italiano Detox (ciò permette di intuire che è al di là del solo “Made in China”, l’effettiva preoccupazione).
È in Cina comunque, oltre ad altri paesi del sudest asiatico, che il programma Detox di Greenpeace prende vita: laddove la maggior parte dei nostri vestiti – fra Bangladesh, India, Sri Lanka, Taiwan e altri – inizia a formarsi. Da ricerche e rilevazioni sul territorio, l’entità, la quantità di sostanze riversate nei principali fiumi sul territorio aveva provocato l’allarme. Quindi l’appello al mondo della moda, affinché rivoluzioni il sistema di produzione: la richiesta di Greenpeace prevedeva una fase uno – l‘impegno delle aziende suggellato Detox 2020 – la fase due – l’eliminazione dei PFC nei tessuti entro il 2020 – e infine come fase tre, il costante monitoraggio dei fornitori e trasparenza riguardo alle sostanze prodotte dagli stabilimenti.
La fase due è appunto cruciale: cosa sono i PFC?
I PFC – o fluorocarburi – sono composti utilizzati anche come anestetici, ad esempio; possono essere di origine naturale, ma a interessarci sono quelli sintetici: sono infatti questi, a rientrare nell’insieme dei gas serra. Classificati come potenziali cancerogeni per la salute umana e quella animale, l’aspetto preoccupante riguarda anche il loro bioaccumulo nei tessuti, e quindi la persistenza in natura: pesci, uccelli, balene, ratti, ma pure all’interno del latte materno. Il loro ciclo di emivita, cioè il tempo di smaltimento nell’organismo umano, può variare dai 4 agli 8 anni.
Se aprissimo l’armadio, troveremmo PFC in diversi tessuti, ad esempio nell’abbigliamento e nelle attrezzature sportive: giacche, zaini, tende, guanti, in questo modo resi impermeabili.
Costituiscono un rischio per la salute dunque, nel momento in cui li indossiamo? Non è il contatto con la pelle a preoccuparci, bensì la loro presenza e persistenza nell’ambiente, il fatto che attraverso l’aria e le acque, possono arrivare da un capo all’altro del mondo: respiriamo, beviamo, mangiamo microparti di PFC, anche se questi sono riversati al di là dell’oceano.
Oltre ai PFC che sono al centro della campagna di Greenpeace, sono circa 12 mila le sostanze tossiche impiegate nella produzione della moda: qualche anno fa, un servizio di Presa Diretta aveva richiesto una consulenza di laboratorio su alcuni capi acquistati nei negozi più noti. Altri composti del carbonio, risultavano le formaldeidi, mentre sulla faccia sorridente di Topolino stampata su magliette per bambini, si trovavano ftalati; e poi metalli pesanti, come il piombo (nelle zip) e il cadmio (nei bottoni dei jeans); in più solventi, coloranti…
La falla nel tessuto:
Ed è evidentemente questo il “difetto”– il buchino nella maglia – della campagna Detox di Greenpeace: sebbene la sfilata Detox abbia visto classificarsi fra quelli “all’Avanguardia” – cioè rispettosi degli impegni presi – marchi come H&M, Zara, Benetton, mentre ne “La Moda che Cambia” – cioè ancora indietro nel percorso – marchi come Valentino, Adidas, Burberry, e ancora nelle “Retrovie” enormi firme come Nike, il problema dei vestiti non si limita a qui.
Due grandi marchi mondiali, H&M e Zara (gruppo Inditex), insieme all’italiana Benetton, sono le aziende che hanno compiuto i progressi più importanti e rientrano nella categoria “Avanguardia”. Queste aziende hanno lavorato molto bene negli ultimi anni, eliminando le sostanze tossiche dalle loro filiere produttive e garantendo un’informazione trasparente sugli scarichi di sostanze chimiche da parte dei propri fornitori. [Greenpeace]
Ritroviamo H&M ad esempio, al contempo fra i premiati “all’Avanguardia”, e al centro delle denunce contro la fast-fashion: la stessa Greenpeace si è ritrovata a rimproverare il marchio, accusandolo di greenwashing. La polemica – peraltro a pochissimi giorni dalla virtuosa sfilata – riguardava l’ormai annuale appuntamento della “Settimana del Riciclo” di H&M, durante la quale i clienti sono invitati a portare i propri abiti usati in negozio, affinché l’azienda possa “ridar loro vita” sotto forma di nuove collezioni “ecosostenibili”. Qualche numero: 1000 tonnellate di vestiti raccolti ogni anno nel mondo, per realizzare 1,3 milioni di capi “sustainable”, utilizzando 130 tonnellate di tessuti riciclati. L’equazione però non torna. E infatti solamente l’1% dei tessuti utilizzati al momento nella moda, risulta riciclabile: lo denuncia Greenpeace, lo riconferma il report di Presa Diretta dopo aver sentito il parere degli esperti nel mestiere.
Mentre attendiamo quindi, quei 4-8 anni necessari a smaltire i PFC fino a ora accumulati, e finalmente – ma solamente in parte – rimossi dalle aziende, dovremmo iniziare a indirizzarci verso la vera “rivoluzione” della moda: comprare meno, riparare, e riutilizzare di più. Perchè se è vero che i PFC – insieme alle altre sostanze tossiche – sversano nelle acque, è un chilo di cotone – tessuto “naturale”, spesso venduto come “ecologico” – a consumare in media 11 mila litri di acqua. E ora, tutti a pesare t-shirt e paia di jeans.
Senza considerare poi, la nube di sfruttamento, discriminazione, lavoro minorile, salari ignobili e mancata tutela dei diritti, di cui la formula Detox di Greenpeace – per ora – non tiene ancora conto.
Alice Tarditi