La confezione di Mine è quella del classico film americano che diventa un esercizio di stile. Un personaggio isolato, una sola location, il desiderio di sopravvivenza in conflitto coi propri demoni interiori. Nel 2010 abbiamo visto due ottimi film di questo genere: Buried – Sepolto e 127 ore. Due piccoli cult che hanno restituito al grande cinema due attori come Ryan Reynolds e James Franco.
Qui abbiamo, invece, Armie Hammer, attore che decide con Mine di abbandonare il ruolo di belloccio (The Social Network, J. Edgar, The Lone Ranger) per dedicarsi ad una parte drammatica ed introspettiva. Un soldato, in missione nel deserto, mette il piede su una mina, rimanendo così bloccato nella stessa posizione per decine di ore.
Il trentenne attore americano si affida per il suo definitivo (e riuscito) rilancio ad un progetto artistico completamente italiano. A scrivere e dirigere questa pellicola sono, infatti, Fabio Guaglione e Fabio Resinaro (in arte Fabio&Fabio), già autori di alcuni apprezzati cortometraggi di genere. Seppure la produzione sia in parte americana e spagnola, Mine è stato percepito e accolto nel bel paese come un film italiano. Da qui il buon successo di una pellicola, uscita per adesso solo in Italia, di cui essere sicuramente orgogliosi.
Un piccolo passo per Mine, un grande passo per l’Italia
La storia, apparentemente semplice, dell’uomo bloccato su un ordigno esplosivo diventa una metafora. Sono stati gli stessi registi a dichiarare che “una guerra esteriore diventa un guerra interiore”. E indubbiamente la missione sembra essere riuscita, con un racconto che si accartoccia su se stesso per rivelare le infinite potenzialità di una mente sofferente. Una sofferenza, quella del protagonista, che parte da molto lontano per arrivare ad esplodere (metaforicamente) su una mina innescata e pronta a farlo (fisicamente).
Fabio&Fabio raccontano una storia sorprendente, e lo fanno senza infarcire la trama di inutili colpi di scena. Rendono ciclico un racconto lineare, dinamica una situazione statica, surreale un contesto realistico.
Il viaggio interiore e spirituale del protagonista compensa la staticità della sua condizione. Un viaggio delicato che si colora di momenti grotteschi e onirici e che spazia nei luoghi della memoria.
Qui sta il passo avanti tanto invocato all’interno della pellicola. Rendere una narrazione semplice qualcosa di universale. Un oggetto (la mina), un gesto (l’inginocchiarsi), un’azione (il passo) diventano metafore valide per la vita di ognuno di noi. E così, due registi milanesi possono creare un film di stampo hollywoodiano che, confidiamo, avrà successo anche oltreoceano.
Parliamo di Hollywood non solo per la presenza di Hammer, ma per un impianto tecnico di prim’ordine. Regia, fotografia, effetti, sonoro, recitazione. In Mine nessuno di questi elementi è sotto lo standard dei migliori blockbuster, nonostante un budget decisamente più modesto. Perché Mine non è affatto un colossal, è un film intimo nello spirito e visionario nella realizzazione. Un’opera italiana destinata a diventare un piccolo cult internazionale e alla quale tutti dovremmo, indistintamente, dare una possibilità.
articolo di Carlo D’Acquisto