La recente conferenza UNESCO sul tema del giornalismo e dei suoi collegamenti con il settore digitale ha evidenziato l’insostenibilità del sistema attuale e la necessità di puntare fortemente sulla solidarietà nella creazione di nuovi modelli di business per il giornalismo.
La conferenza UNESCO da poco terminata ha avuto per tema il giornalismo e le sue connessioni con il mondo digitale. Esperti dei media di tutto il mondo si sono riuniti per discutere i rischi che la transizione digitale pone al futuro del mondo della comunicazione.
Ciò che è emerso nella conferenza tenutasi a Montevideo è l’insostenibilità di un modello di produzione che va ripensato dalle fondamenta. Infatti, seppure la sfida principale alla produzione di informazione di qualità sia rappresentata dalla censura online e dall’uso spregiudicato che i governi fanno delle leggi nate per arginare il fenomeno della disinformazione, declinate in favore degli interessi autoritari di una ristretta classe dirigente, ciò non sarebbe possibile se fiducia e risorse fossero riconosciute a tutti gli operatori nell’industria dell’informazione.
L’impatto devastante che la pandemia ha avuto sulla sostenibilità dei media a livello mondiale è stato ben chiarito dalla recente pubblicazione del Digital News Report da parte del Reuters Institute. Il rapporto annuale, nato con l’obbiettivo di fotografare lo stato di salute del mondo dell’informazione, chiarisce sin da subito che:
“…la crisi ha accelerato la scomparsa dei giornali stampati, influenzando ulteriormente i profitti per molte società di media un tempo orgogliose e indipendenti”.
Di fronte alla recessione globale gli editori da una parte e gli inserzionisti dall’altra hanno deciso di rifugiarsi nella strategia del paywall, la quale non permette accesso al contenuto se non dopo la sottoscrizione di un abbonamento. Così facendo essi hanno di fatto riconosciuto che “il digitale c’è ed è qui per restare”, anche a fronte di una realtà in cui il 50% degli incassi va direttamente ai giganti digitali.
Se infatti sostenere un progetto digitale è cultura di una ristretta élite, la quale può e vuole permettersi informazioni accurate, le piccole realtà locali, così come quanti non sentono il bisogno o non possono avere accesso all’informazione a pagamento, si sono trovati oggetto di campagne di micromarketing e clickbaiting che non hanno fatto altro che polarizzare il senso di fiducia nei media: nel mondo il 44% delle persone crede in quello che legge nei giornali, contro solo un 24% che ripone fiducia nei social media.
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Tali evidenze sono ancora più stridenti in quelle società in cui il servizio pubblico non esiste oppure è oggetto diretto del governo centrale:
“…nei paesi dotati di un servizio pubblico forte e indipendente, abbiamo visto maggiore consumo di notizie affidabili” riporta lo studio, “hanno ottenuto risultati particolarmente buoni, forse perché sono stati in grado di utilizzare i loro canali TV e radio per promuovere informazioni più dettagliate”.
Allo stesso tempo, tutte le comunità che si sentono parte di una minoranza hanno dimostrato di non avere alcun interesse a sostenere o prestare attenzione a quanti non le rappresentino. Eppure, proprio la moltitudine delle minoranze globali può, secondo lo studio, essere il punto da cui ripartire per “sollecitare un genuino interesse in questi gruppi e riconquistare una parte del pubblico. Soprattutto considerando che “il pubblico sostiene ancora fortemente gli ideali di notizie imparziali e oggettive“.
È dunque dal riconoscere l’altro come parte di noi, che i media dovrebbero ripartire per cavalcare l’onda del cambiamento che stiamo vivendo w per la nasciata di nuovi modelli di business per il giornalismo. Secondo l’analisi UNESCO Journalism press freedom and COVID-19 presentata nel corso della conferenza, i media dovrebbero puntare a conquistare quella parte di pubblico che oggi non ha voce attraverso una maggiore interazione con tutti i partners della società civile: da un parte gli attivisti così da rafforzare la promozione dei diritti umani, per assicurare a tutti il diritto all’informazione, alla privacy e alla libertà di parola; dall’altro le piattaforme di libero accesso dati, miniere di informazione trasparente, purtroppo ancora troppo trascurate.
Tali traiettorie oggi sono percorse dal giornalismo scientifico e quello costruttivo, che offrono possibili soluzioni ai problemi della società:
“Il mondo ha bisogno di maggiori informazioni come fondamento della conoscenza. Un premio dovrebbe essere messo sulla promozione della scienza e delle politiche basate sui fatti, e sul contributo del giornalismo a questi”.
Tutto questo sforzo dovrebbe dunque aumentare la consapevolezza e la partecipazione del pubblico nell’attività civile grazie alla creazione di “elementi critici, necessari per far fronte alla disinformazione sistematica”. È dunque necessario che quanti più media possibili si uniscano in uno sforzo internazionale al fine di imporre maggiore trasparenza ai governi e alle grandi piattaforme digitali; se ciò non avverrà la libertà editoriale non potrà che esserne compromessa ancora di più nell’immediato futuro.
Solo grazie a questo ritorno del giornalismo a “cane da guardia” della democrazia e difensore dei diritti fondamentali sarà possibile navigare la crisi in corso e trovare risposte umanitarie ed economiche capaci di assicurare un futuro alle nostre società democratiche.