Il 1986 che si era chiuso per Prince era stato un anno particolare e portatore di qualche avvisaglia per il futuro. Se Parade aveva confermato la grande vena artistica e produttiva del genio di Minneapolis (c’era dentro, tra le tante delizie, una certa Kiss), Under The Cherry Moon si era rivelato un disastro di proporzioni epiche, incapace di riproporre i fortunati incassi di Purple Rain e incrinando le velleità d’attore e regista di Prince (ad affossarle del tutto ci penserà Graffiti Bridge).
Il flop del suo secondo tentativo cinematografico non aveva però fermato la vervecreativa del nostro, che si era subito ributtato nei suoi furiosi processi creativi, intenzionato come non mai a prendersi una rivincita dove il suo talento primeggiava: la musica. Assieme ai suoi Revolution aveva registrato materiale per due album chiamati Dream Factory e Camille, che però per i soliti motivi di bulimia artistica del nostro non videro la luce, ma vennero riconvertiti in un altro progetto chiamato Crystal Ball.
Questo comprendeva molti dei pezzi dei due album abortiti e nelle intenzioni dell’autore doveva essere un triplo album, che venne prontamente rifiutato dalla Warner, poco convinta della potenzialità commerciale per un’opera così prolissa e meno fiduciosa nel dare carta bianca all’artista di Minneapolis dopo il clamoroso fallimento di Under The Cherry Moon. Per la prima volta Prince si trovava respinto un lavoro dalla sua casa discografica e se la legò al dito, ma questo non era il suo unico problema al momento. Al termine della tournée di Parade sciolse i Revolution, soprattutto per le incomprensioni con Wendy & Lisa, rompendo un fortunato sodalizio artistico con cui aveva dominato le classifiche.
Insomma, nonostante anni in continua ascesa, il 1987 che si affacciava per His Royal Badness non si presentava esattamente con le prospettive migliori . Ma l’irrequietezza che scalpitava dentro il Signor Nelson ancora non è contrassegnata da quelle venature autodistruttive che solo pochi anni dopo verranno del tutto alla luce e, dopo aver assemblato una nuova formazione di musicisti (che comunque verrà molto limitata nella registrazione di quello che è un vero e proprio album realizzato dal solo Prince) e risuonato o riadattato molti dei pezzi previsti per i lavori non pubblicati, presenta ai suoi capi quello che sarà Sign “☮” The Times.
Anche in questo caso i dirigenti della Warner nicchiano (l’album è pur sempre doppio), ma alla fine devono arrendersi alle insistenze di Prince e danno il nulla osta al disco, che viene pubblicato il 31 marzo del 1987. Sign “☮” The Times potrebbe essere semplice routine per Prince, che già a 28 anni non ha più nulla da chiedere alla sua carriera: è uno dei simboli musicali di quegli anni, vende come pochi, riempie arene senza fatica, è rispettato nell’ambiente e considerato già in quegli anni un genio forse irripetibile. Però quando si trova a realizzare il rebuilding dell’album decide di farne un punto di arrivo e sintesi della sua musica e della dualità che sempre l’aveva retta: il peccato della carne e la spiritualità.
La title-track è un crudo compendio delle disgrazie umane e un capolavoro di minimalismo in salsa drum machine. L’incapacità degli uomini di imparare qualcosa dai loro errori (“Is it silly, no? When a rocket ship explodes and everybody still wants to fly”) e l’estrema fragilità di fronte alle intemperie della vita come la morte, droga e l’AIDS(“In France, a skinny man died of a big disease with a little name. By chance his girlfriend came across a needle and soon she did the same“), possono essere almeno in parte bilanciate dall’amore, che resta l’unica ancora di salvezza (“Sign o’ the times mess with your mind, hurry before it’s too late. Let’s fall in love, get married, have a baby, we’ll call him Nate if it’s a boy”).
Play In The Sunshine si lancia con le sue chitarre all’interno di una festa rockabilly, che prosegue con la sincopata Housequake, scatenata energia funky. La delicata storia psichedelica di The Ballad Of Dorothy Parker fa riprendere un pò il fiato, ma è solo un momento, perché si riparte subito con l’aggressiva It. La dolce samba di Starfish & Coffee ci introduce ai ricordi scolastici del giovane Prince, per poi finire dentro Slow Love, che assieme alla finale Adore (forse incisa secondo la leggenda con Miles Davis) ci mostra il suo falsetto a livelli assoluti.
Con Hot Thing Prince torna a mostrare i muscoli, mentre in Forever In My Life si mostra per la prima volta meno aggressivo verso la sua donna, (all’epoca la gemella di Wendy Melvoin, Susannah) esaltata come un punto di appoggio e forse di salvezza (“You are my savior/You are my life”). U Got The Look, gioiello pop, trasporta l’ascoltatore verso If I Was Your Girlfriend, uno dei punti più alti raggiunti dalla penna di Prince, che descrive l’inversione dei ruoli uomo/donna e le contraddizioni nelle relazioni amorose; Strange Relationship, apparentemente solare e allegra, racconta le incomprensioni di coppia.
In I Could Never Take the Place of Your Man ci racconta le delusioni della vita lanciandosi in una delle sue furiose cavalcate chitarristiche; The Cross parte con una chitarra acustica che accompagna un testo di richiamo spirituale, per poi lasciarsi irrettire dalla solita impetuosa divagazione hard rock; It’s Gonna Be a Beautiful Night, nella sua registrazione live, ci ricorda quanto il folletto fosse impressionante dal vivo nei suoi deliri funk.
Il doppio album, nonostante non arrivi neanche lontanamente ai picchi di vendite di Purple Rain (ma Prince non sfiorerà più quei vertici), viene considerato da sempre il suo vero capolavoro e recensito come uno dei migliori prodotti dei luccicanti e vuoti anni 80, spesso considerati alla stregua di un incidente di percorso nella storia della musica. In mezzo a quell’incidente c’era però un autentico mostro alto poco più di un metro e mezzo e dotato di un talento smisurato e multiforme, un uomo pieno di contraddizioni, anarchico e dispotico, poetico ed egocentrico, torrenziale e impossibile da contenere e ingabbiare dentro generi ed etichette, proprio come il suo caotico capolavoro chiamato Sign “☮” The Times.
Luca Divelti