Ad Hong Kong riprendono le proteste contro il governo cinese sospese per il lockdown
In questi giorni si è ricominciato a parlare, seppur timidamente, delle manifestazioni ad Hong Kong.
Ma dove eravamo rimasti? Facciamo il punto della situazione.
La regione amministrativa speciale di Hong Kong ha conosciuto diversi moti di proteste contro il governo cinese. Il malcontento parte già nel 1997 quando cessa di essere colonia britannica e passa sotto l’influenza del governo di Pechino. Da quel momento la Cina ha sempre cercato di allargare la sua espansione sul territorio.
Le proteste del 2019, quindi, non sono le prime. Esse, infatti, sono figlie di un altro movimento iniziato cinque anni prima: la cosiddetta Rivoluzione degli ombrelli (Umbrella Movement).
Nel 2014 il governo cinese propone una riforma del sistema elettorale di Hong Kong. Questo tentativo di legge ha destato non poche preoccupazioni. Nel mirino il mantenimento della democrazia e del principio “un Paese, due sistemi”, che prevede l’appartenenza ad un’unica sovranità con all’interno due diversi sistemi amministrativi.
È così che molti cittadini decisero di riunirsi per protestare pacificamente, contro l’ingerenza cinese sulle candidature e per chiedere elezioni democratiche a suffragio universale. La protesta andò avanti per due mesi circa. I manifestanti si “armano” di ombrelli -diventati il simbolo- per difendersi dagli spray al peperoncino e dai gas lacrimogeni della polizia; fino allo smantellamento delle manifestazioni, concluse con 995 arresti.
Nel giugno del 2015 il Parlamento di Hong Kong rifiuta comunque la proposta di legge.
Sembrerebbe una vittoria, una pausa dalle continue tensioni. Ma Pechino non cessa i suoi tentativi di espansione nel territorio di Hong Kong. Nascono altre proteste, fino ad arrivare a quelle del 2019.
Le contestazioni dello scorso anno nascono come rifiuto a una legge sull’estradizione promossa dal governo di Hong Kong e dal capo esecutivo Carrie Lam, eletta nel 2017 e ritenuta molto vicina Pechino.
Gli oppositori di questa legge ritengono che essa potrebbe dare il via a pressioni maggiori da parte della Cina. La conseguenza sarebbe la riduzione dei diritti fondamentali, dell’esercizio della democrazia e di quell’indipendenza legislativa ed economica che Hong Kong fatica a mantenere.
Nonostante le rassicurazioni della Cina, ulteriori sospetti sono nati quando si è accennato a possibili estradizioni di cittadini stranieri colpevoli di aver commesso crimini contro il governo cinese al di fuori del suo territorio.
Con l’avanzare delle proteste, il movimento si è allargato arrivando a contare un elevato numero di manifestanti e cambiando modalità. Sfocia in scontri violenti con la polizia e l’azione si sposta anche nelle università, con il conseguente arresto di molti studenti.
La violenza e il perdurare delle proteste hanno spinto Carrie Lam a ritirare la proposta di legge sull’estradizione nel settembre 2019. Questo non ha fermato il dissenso e le contestazioni proseguono fino al sorgere dell’emergenza Covid-19.
Con il lockdown le acque si sono calmate e le notizie sono diventate più scarse.
A questo proposito ricordiamo il controllo delle informazioni da parte del governo cinese, poco incline alla condivisione delle notizie riguardanti il suo territorio.
Campagne di disinformazione avvengono già dal 2019: pensiamo agli episodi di cittadini feriti da proiettili di gomma utilizzati dalla polizia. In quell’occasione il governo ha cercato di manipolare le notizie per sviare le colpe e farle ricadere sui manifestanti.
Nonostante le difficoltà, Hong Kong ha continuato le proteste contro il governo cinese.
Una volta allentate le restrizioni un gruppo di cittadini si è riunito in un centro commerciale per dare inizio a nuove manifestazioni. E già dopo soli due mesi le proteste prendono di nuovo piede e con esse si torna a parlare dei metodi delle forze dell’ordine coadiuvate dal governo.
Ma con la legge ritirata, perché i cittadini continuano a scendere in strada?
Le richieste di Hong Kong sono aumentate. Ora esigono anche una maggiore democrazia e una minore ingerenza di Pechino, le dimissioni del capo esecutivo Lam, l’abbandono del termine “rivolta” in riferimento alle manifestazioni, l’avvio di un’inchiesta sulle violenze da parte delle autorità.
Anche Amnesty International si è espressa in merito alla violenza della polizia, muovendo gravi accuse di torture ed abusi perpetrati ai danni dei manifestanti. Le autorità hanno rigettato tali affermazioni.
La lotta, intanto, continua ancora in questi giorni e sempre con le stesse modalità.
La regione non vuole arrendersi di fronte alle pressioni della Cina, che cerca di venire meno ai patti stabiliti nel 1997.
Le proteste di Hong Kong ci toccano da vicino. Sono lotte per la democrazia, i diritti e le libertà fondamentali. Questioni che riguardano tutti noi.
Marianna Nusca