Il mercato del videogioco è fra i settori più affascinanti dei nuovi media. Oggetto di costanti controversie e discussioni sul suo valore come forma narrativa e artistica, ma anche fra le poche industrie in costante crescita ed evoluzione. E nell’adattarsi ai tempi d’oggi, lo sforzo verso una maggiore rappresentazione di categorie esterne al target originario permette nuovi metodi per educare e sensibilizzare, anche se con non poca resistenza. Nell’intervista a Mauro Colarieti, autore e dottorando presso l’università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, si discute di come le caratteristiche uniche del videogioco possano aprire nuove strade per la narrativa e, soprattutto, per un’educazione all’immedesimazione.
Rappresentazione e inclusività nei videogiochi: Un’intervista a Mauro Colarieti – Il mondo videoludico è da
sempre il punto di convergenza di posizioni polarizzanti e oppositive: Si tratta di un mercato che, dopotutto, nelle sue vette di produzione (la cosiddetta “industria tripla A”) incentiva a narrazioni esaltanti la violenza, promuove nuove forme di gioco d’azzardo orientate verso fasce sensibili della popolazione e ai più giovani, ed è annualmente coinvolto a livello industriale in cause legali riguardanti l’abuso dei dipendenti e una diffusa cultura aziendale maschilistica e discriminatoria.
Ci si sbaglierebbe però a pensare che il media si restringe a questo: si tratta di un genere (o meglio, di un insieme di generi) in costante evoluzione, da sempre ricettivo a forme di sperimentazione e influenze da altri media e soprattutto dalle piccole produzioni (i “doppia A” e gli “indie”), i quali hanno trovato una nicchia feconda nella pubblicazione digitale di prodotti artisticamente elevati e in grado di trascendere quello che è da sempre stato il target principale di un pubblico esclusivamente maschile ed eterosessuale, e nel farlo hanno permesso di ampliare gli orizzonti di un mercato che, tradizionalmente, è sempre stato restìo ad ogni sorta di cambiamento a livello sociale.
Nell’intervista di seguito, si affronteranno svariate tematiche relative agli studi del dottor Mauro Colarieti, autore di numerosi racconti brevi e dottorando in Learning Sciences and Digital Technologies, il cui progetto di studi riguarda proprio come le possibilità offerte dal videogioco possano educare e allenare a comprendere la diversità in ogni sua forma.
Branching Narratives, immedesimazione, ed empatia
Buongiorno Mauro, è un piacere poterti intervistare per Ultima Voce. Ti chiederei, prima di tutto, di presentarti e di introdurre il tuo progetto di dottorato.
Certo, mi chiamo Mauro Colarieti, e sto affrontando presso l’università Cattolica una tesi di dottorato in learning sciences and digital technologies, nel curriculum Gaming.
La tesi riguarda uno studio per quanto riguarda l’inclusività ed educazione ad essa attraverso un sistema di narrazione non-lineare non esclusivo ai videogiochi ma piuttosto presente nel mondo videoludico e tipico dei miei casi di studio chiamato Branching Narrative, intersecandolo a tematiche di inclusione sociale. Mi concentro sui videogiochi pubblicati negli ultimi vent’anni, osservandoli da molteplici prospettive, fra cui studi di narrativa, game design, ma anche delle filosofie sottostanti allo sviluppo e agli effetti psicologici che il videogioco ha sul giocatore.
Uno dei punti centrali della tesi riguarda le argomentazioni di Daniel Vella sulla “soggettività ludica“, ovvero sulle modalità di rapporto che si viene a costituire fra il giocatore e l’avatar digitale, e sul minority-embodiment, ossia sui modi in cui può sentirsi il giocatore quando “prende il ruolo” di un personaggio appartenente a una minoranza, analizzando i suoi ragionamenti e le sue emozioni nel momento in cui egli possiede un grado di responsabilità nei suoi confronti.
Partiamo con ordine: cos’è esattamente una Branching Narrative?
Si tratta di una tipologia di trama non lineare in cui il giocatore interagisce con la storia scegliendo come e dove procedere quando posto davanti a dei “punti di snodo”, e dove ogni scelta porta a uno sviluppo diverso della storia a seguire. Non è un tipo di trama esclusivo al mondo dei videogiochi, si pensi al “libro game” dello scorso secolo, alle performance teatrali interattive, o ancora all’episodio interattivo Bandersnatch della serie televisiva Black Mirror.
Ma le Branching Narratives sono presenti principalmente nel genere del videogioco, il quale le ha sviluppate nel tempo per proporre narrazioni complesse e stratificate, impiegando molto spesso dilemmi morali ed etici in cui la dicotomia di giusto e sbagliato è sostituita da finali dolceamari e da decisioni complesse. Nel videogioco, la Branching Narrative è funzionale anche da un punto di vista di incentivo economico, favorendo la replayability, ossia il desiderio del giocatore di riprendere il gioco in mano una volta terminato per sperimentare nuove scelte, e un nuovo sviluppo della storia.
Rappresentazione e studi di inclusività nei videogiochi: un’evoluzione in corso
In che modo la rappresentazione di una maggiore diversità influisce sul giocatore? E come le branching Narratives aiutano a questo riguardo?
Si tratta di una relazione su due piani: da un lato si considerano le metodologie multidisciplinarie attraverso cui possiamo affrontare il tema di rappresentazione di una certa minoranza all’interno dell’ambiente, e dall’altro le caratteristiche e gli effetti della branching narrative, derivanti dal fatto che è chi interagisce a portare avanti la trama del personaggio.
Fra i prodotti che ho studiato maggiormente c’è Life is Strange, una serie episodica di videogiochi dove le scelte del giocatore influiscono sugli eventi della vita di protagonisti appartenenti a varie comunità minoritarie (nel primo titolo Max, una ragazza appartenente alla middle class inserita nel contesto privilegiato di un’accademia privata d’arte, nel secondo, una coppia di fratelli messicani nel periodo della presidenza di Donald Trump, e nel terzo un’orfana di origini asiatiche). Fra i finali del primo gioco, nessuno permette di ottenere un Happy Ending, chiedendo a chi interagisce con la storia di scegliere se aiutare la cittadina in cui vive, salvando un grande numero di persone ma sacrificando la vita della sua compagna/amica (le azioni del giocatore influiscono sul rapporto fra i due personaggi) o di fuggire con lei lasciandoli al loro destino.
Un altro gioco che mi ha affascinato molto nel trattamento della discriminazione è Detroit: Become Human. in Detroit, il giocatore assume i panni di vari androidi senzienti il cui stato di servitù porta progressivamente al momento decisivo di una rivolta per ottenere diritti pari a quelli umani. La trama del gioco traccia paralleli chiari con le dinamiche del razzismo, tanto che in alcune direzioni che la storia può prendere, i personaggi sono internati in un luogo fortemente rievocativo dei campi di sterminio. Anche gli scenari di “vittoria” sono sempre pirrici, richiedendo da parte del giocatore una riflessione sull’esperienza appena avuta, sulle tematiche di come condurre una rivoluzione sociale e le conseguenze di un approccio violento o non violento davanti all’ingiustizia sistemica.
Una maggiore rappresentazione permette dunque di immedesimarsi in categorie discriminate, anche quando non si ha esperienza diretta degli eventi. Ci sono altri aspetti educativi del medium?
Ho scritto per Vanity Teen un articolo proprio riguardo alle possibilità di educare l’utente verso una maggiore coscienza e approccio per quanto riguarda temi complessi: in Tell Me Why viene esplorato il rapporto fra due gemelli, toccando argomenti di grande sensibilità come transessualità e disturbi di ansia e panico. Proprio riguardo a questi ultimi, uno dei personaggi usa un’applicazione per gestire i suoi attacchi di panico, con cui il giocatore deve interagire per aiutarlo nei momenti di crisi. Attraverso questo espediente metanarrativo, il titolo fornisce a chi gioca una prima educazione nei confronti della gestione di situazioni simili.
Ci sono anche ulteriori aspetti studiati proprio ora sull’impiego del videogioco come strumento per la terapia. Francesco Bocci ha creato Video Game Therapy a questo proposito, dove la ludoterapia attraverso titoli commerciali permette di sviluppare approcci nuovi verso la gestione, ad esempio, di traumi e dipendenze.
Trasfigurazione delle minoranze e rappresentazione negativa negli studi di inclusività in campo videoludico
Hai citato Detroit: Become Human, dove i robot si fanno icona di una serie di problemi legati a varie tipologie di discriminazione reale tuttora molto rilevanti nel mondo contemporaneo. Perché non usare le minoranze direttamente, ma creare una nuova categoria invece che discuterne direttamente? Perché implicitare il discorso?
Da un lato c’è una, definiamola, “normalizzazione subdola”. Si inseriscono all’interno del discorso pubblico minoranze mascherate come qualcosa di più distante da discorsi sensibili per, fra le altre cose, far sì che persone di diversa ideologia possano decidere comunque di prenderlo e giocarci. Magari non si renderanno conto della metafora, ma c’è la possibilità che diventi uno strumento di sensibilizzazione.
Il secondo aspetto è quello dell’originalità narrativa e sulla potenza della metafora. Ogni categoria discriminata può riconoscersi all’interno del parallelo creato, non solamente una. La trasfigurazione di molte minoranze in una regge perché il gioco crea paralleli storici e simili a quelli della nostra società. Il giocatore assume il controllo di personaggi che sì, sono androidi, ma normalizzati, e avverte con loro il disdegno degli esseri umani. Sono una fetta di popolazione discriminata per pregiudizio storico e sociale. In Detroit i robot sono ogni minoranza, alienati per razza, genere, tendenze.
Allo stesso tempo, la metafora impiegata non è sottile. È davvero difficile che il giocatore non faccia un processo di rielaborazione dopo avere finito il gioco, e questo permette potenzialmente di considerare nuove prospettive, di cambiare la propria opinione su chi nella nostra società oggi subisce esclusione.
Esistono tipologie di inclusività negativa dannose all’interno del mondo videoludico?
Certamente. La diversità e la rappresentazione inclusiva, pur essendo ricche e variegate, possono spesso essere associate a un atteggiamento superficiale e ignorante. Un esempio di inclusività negativa è evidente in televisione, dove si includono stereotipi sull’omosessualità solo per adattare la comunità a una società eteronormativa. In questo modo, pur mostrandosi inclusivi, si finisce per creare e perpetuare stereotipi dannosi.
Lo stesso fenomeno si manifesta nel mondo cinematografico e videoludico, ad esempio nella rappresentazione del personaggio femminile, che ha una storia centenaria nell’essere relegato a un ruolo passivo nei confronti di un protagonista maschile, seguendo rigidamente convenzioni di genere. Analogamente, quando si rappresenta un corpo che esce dagli standard tradizionali, come quello di una persona plus-size, può essere associato esclusivamente a figure negative, come il boss finale o la spalla stupida delle sitcom. Questo tipo di connessione danneggia l’immagine dell’intera comunità, contribuendo a perpetuare stereotipi dannosi.
Esiste anche un discorso di quello che io chiamo Inclusivity Baiting, cioè nell’inserire minoranze all’interno di un prodotto mediatico solo per attirare una maggiore fetta di pubblico. Il rischio è di creare rappresentazioni superficiali.
La soluzione in realtà è molto facile: basta fare ricerca. Tell Me Why inizia con un messaggio in cui si avverte il giocatore che per sviluppare e sceneggiare il gioco si sono consultati esperti di cultura LGBTQAI+ e psicologi specializzati in disturbi psicologici. Un esempio di antitesi di Tell Me Why è la serie televisiva 13 Reasons Why, famosa per essere stata oggetto di numerose controversie legate a dinamiche di rappresentazione sensibili e importanti come suicidio, violenza sessuale e controllo delle armi negli Stati Uniti, gestite in maniera molto discutibile.
Un pubblico da sempre restìo al cambiamento: resistenza e opposizione verso una maggiore rappresentazione e inclusività nei videogiochi
In questi ultimi anni poche comunità come quelle dei videogiochi hanno manifestato una resistenza all’adozione di tematiche di inclusività, tanto da aver creato il motto “Go Woke and go broke” (ossia, diventa parte della cultura del politicamente corretto e vai in bancarotta). Quali pensi che siano le motivazioni di quest’opposizione?
La risposta ha un certo livello di ironia: il campo videoludico è stato esclusivamente orientato a un pubblico maschile eteronormato per tantissimo tempo, producendo storie e prodotti in cui la sensibilità verso le minoranze era del tutto assente, se non ridicoleggiata: nei videogiochi online tuttora l’insulto di “essere gay” se si gioca male è del tutto comune, così come è “etichetta” non dire di essere una donna, per non correre il rischio di ricevere insulti misogini. Ora che il mercato si sta aprendo, il pubblico originario, lo stesso che si lamenta per una sostanziale “inutilità” in queste nuove dinamiche di inclusività, si sente meno rappresentato dal suo media preferito, e reagisce in maniera oppositiva.
Il problema è anche dell’industria stessa: nel momento in cui ritiene che il target principale dei loro prodotti sia uno, e uno solo, proporre un progetto che devia da esso diventa progressivamente più difficile: durante lo sviluppo di Life is Strange, ad esempio, il gioco fu rifiutato da svariate case di produzione perché il protagonista non era un uomo.
Per i primi anni 2000 i videogiochi hanno continuato a mantenere una linea di divisione di genere molto forte: esisteva un estesissimo campo di “giochi per maschi” (Call of Duty, Halo, Fifa, solo per fare alcuni esempi) e un ridotto settore di “giochi per femmine”: The Sims, Nintendogs, Cooking Mama erano prodotti videoludici pensati per essere consumati da ragazze, per via proprio del loro contenuto: gestione domestica, affetto e premura verso bambini e cani, cucina.
Il problema è quindi quello di un’industria che ha tenuto per quasi un ventennio un singolo gruppo di consumatori in mente, lasciando qualche piccolo spazio a quello che pensava fosse un altro possibile, ma irrisorio, pubblico.
Le regole stanno cambiando. Il successo delle produzioni medio-indipendenti ha mostrato infatti che esistono moltissime altri potenziali target interessati al medium, e il mercato ha preso nota della fetta notevole di giocatori che poteva raggiungere allargando i propri orizzonti.
Tornando alla resistenza del pubblico per integrare maggiormente tematiche di inclusività sociale, molto spesso viene citato il fenomeno del “Gatekeeping”, per cui viene utilizzata l’esclusione di certe fasce di pubblico da un determinato franchise per la paura di snaturarlo, adducendo, fra le altre cose, proprio una fedeltà nei confronti della storia originale, percepita come a rischio di essere stravolta nel tentativo di diventare maggiormente inclusiva. Si tratta di una critica valida?
Io capisco, almeno in parte, il Gatekeeping. Quando eravamo adolescenti, la cultura del Gatekeeping era adottata verso chi ritenevamo, attraverso standard un po’ aleatori, si fingesse fan sfegatato di qualcosa che piaceva anche a noi. Il non volere che certe cose a cui siamo affezionati diventino popolari, nel timore che si adattino a un pubblico generalista e diventino meno “nostre” è, penso, umano.
Allo stesso tempo, le critiche a volte diventano paradossali: ci sono state critiche per l’inclusione dei pronomi in The Sims, per via del fatto che si stavano immettendo tematiche sociali in un videogioco, forse dimenticandosi che il titolo fa parte del genere Life Simulator (Simulatori di vita).
La questione è capire il processo storico in cui ci troviamo, che è anche e principalmente economico: nel momento in cui a una qualunque proprietà intellettuale, per legge di mercato, si trova davanti all’alternativa di adattarsi o morire, è meglio anche per i fan che sopravviva, no?
Ogni personaggio un universo, i metodi “corretti” per una migliore rappresentazione inclusività nei videogiochi
Le dinamiche di rappresentazione toccano questioni molto variegate: femminismo, comunità LGBTQ+, ma anche, come hai detto prima, disturbi mentali e lo spettro delle forme del corpo. Ritieni che esistano problematiche in come attualmente alcune di queste tematiche sono incluse nel mondo dei videogiochi?
Per semplificare una questione in realtà molto complessa, penso esista uno spettro dove i problemi accadono se si toccano i suoi estremi. Uno di questi estremi è l’approccio “superficiale”, e prevede di inserire ad esempio un personaggio appartenente a una minoranza sociale senza che venga dato peso al suo trascorso. Il potere di questo tipo di rappresentazione è quello di normalizzare la presenza di minoranze anche all’interno degli universi fittizi delle narrazioni. In questo caso, il problema che si presenta può però essere quello di una rappresentazione senza lotta, di una visione meramente commerciale dell’inclusività che non desidera affrontare temi importanti, ma solo massimizzare i guadagni aumentando la propria reach.
La problematica opposta è quella di rendere l’identità minoritaria l’unico tratto distintivo del personaggio. Nella scrittura, ogni personaggio deve essere un universo, e la sua identità stratificata. Concentrarsi unicamente sull’aspetto della rappresentazione ha la funzione di renderlo un’icona, ma anche di oggettificarlo come minoranza. Smette di essere un personaggio, e diventa una funzione.
Esiste un modo di rappresentare che è giusto, ma è ovviamente impegnativo. Prevede una forte base di ricerca e di approfondimento delle questioni che si vogliono affrontare, ma anche una visione empatica delle persone appartenenti alla comunità così da renderle, appunto, persone e non oggetti.
Per quanto riguarda la questione della bodyshape, ossia della rappresentazione di corpi non standardizzati secondo quegli ideali che hanno dominato cinema e moda, ma soprattutto il mondo dei videogiochi, quali sono le tue opinioni?
Sulle rappresentazioni dei corpi c’è ancora molto lavoro da fare, esiste ad esempio ancora molto fat shaming: Baldur’s Gate 3, vincitore del titolo di Gioco dell’anno per il 2023, ha una grande rappresentazione per quanto riguarda queerness e tematiche “culturali”, ma le uniche rappresentazioni di corpi grassi sono limitate agli antagonisti, per lo più troll disgustosi. Non è una cosa che appartiene solo al settore videoludico: nell’universo mediatico contemporaneo, il corpo grasso raramente è codificato come appartenente all’eroe, o a un personaggio positivo.
Il settore videoludico ha celebrato per quasi un ventennio un numero molto ristretto di forme corporee, aderenti a standard stereotipici, e tuttora vengono usate quelle che io reputo scusanti per mantenere lo status quo: la prima citata opposizione viene dai giocatori abituèe. Su Reddit l’assenza di corpi grassi in FPS, ma anche in Hogwarts Legacy o Baldur’s Gate III, è che in contesti simili sarebbe impossibile essere grassi a causa dell’elevata attività fisica. Dimenticano forse che parliamo di mondi dove ci sono draghi e bacchette magiche, ma il protagonista grasso è sicuramente l’elemento meno realistico. Altre questioni per giustificare l’assenza di body inclusivity nei videogiochi è la questione di animazioni e programmazione, per cui sarebbe complicato animare un corpo diverso da uno magro o muscoloso senza incorrere in bugs. Una critica facilmente smentita nel momento in cui viene fatto comunque, ma solo per quanto riguarda i personaggi negativamente codificati.
Fortunatamente, anche per quanto riguarda simili questioni si stanno osservando dei cambiamenti: Broken Records, un titolo annunciato a fine 2023 dagli stessi creatori di Life is Strange, presenta una protagonista plus-size. Sono piccoli passi, ma importanti.
Un rinnovato rispetto per lo storytelling videoludico: come il mercato indipendente ha influenzato la grande industria
Quale ruolo ha lo sviluppo indipendente sulle grandi aziende di sviluppo dei videogiochi? Si tratta di due linee parallele, o esse si influenzano vicendevolmente?
Il successo degli Indie ha influenzato enormemente l’industria “tripla A”. Si pensi soltanto a The Last of Us. il franchise di enorme successo che, oltre a pubblicare l’anno passato una serie di altissima qualità per HBO, ha osato cambiare il protagonista per il suo secondo titolo, passando da Joel a Ellie, una ragazza che, si scopre già dal primo titolo, è omosessuale. Si potrebbe pensare quindi che si stia cancellando la convinzione nel mercato per cui “non si possono fare certe cose in quanto sconvenienti” anche grazie al successo di quei titoli che pullulano di rappresentazioni di minoranze. causata proprio dagli sviluppatori indipendenti. Infatti, l’orientamento sessuale di Ellie è normalizzato, sia da un contesto apocalittico dove certe questioni non necessitano spiegazioni o sottolineature, sia dalla narrazione stessa, che non pone accento sull’omosessualità quanto sulla storia d’amore tra due persone.
L’indie ha meno budget ma molta più libertà creativa, può permettersi, in un certo senso, di fare del suo meglio per sradicare i tabù. E nel momento in cui Life is Strange supera un numero di giocatori totali di 20milioni (che, per un indie è molto) questi bias vengono a poco a poco rimossi. In questo gioca un ruolo sempre più importante quello dello storytelling. Ci stiamo rendendo conto che il lato narrativo dei videogiochi aiuta, e non poco, a vendere.
Dagli anni novanta in poi, una delle affermazioni cardine per lo sviluppo dei videogiochi proveniva da John Carmack, fra i lead developer di DOOM: “La storia in un videogioco è come quella in un film pornografico. Ci si aspetta che ci sia, ma non è importante.”. Oltre a dire in sé molto di come il genere è stato percepito e utilizzato fino ad ora, non sembra che questo principio sia più valido. Quali sono, a tuo parere, i motivi dietro il cambiamento?
È sicuramente vero che esiste una differenza fra il videogioco inteso come intrattenimento da performance. È uno dei suoi aspetti principali, e per molto tempo è stato il principale. I tempi però sono cambiati. Negli ultimi vent’anni molti aspetti del media hanno avuto una grande evoluzione. Lo sviluppo tecnologico, solo per dirne uno, ma anche il fatto che il videogioco si è avvicinato sempre di più al mondo cinematografico, dove la storia diventa un elemento fondante.
È anche una questione di cambiamento nella società: lo storytelling attira molto la generazione nata nell’era dei social media, più connessa per natura. Noi non vogliamo più andare all’arcade, ma vogliamo conoscere la storia della cassiera che ci lavora. Il videogioco, per il fatto di appartenere al campo del digitale – ma anche per motivazioni più tecniche di sviluppo – enfatizza questa connessione.
Una maggiore attenzione verso una storia ben strutturata spinge anche nella direzione di una rappresentazione più inclusiva: anche solo considerando la Branching Narrative, il fatto che le scelte non siano più fra “giusto” e “sbagliato”, “buono” o “cattivo”, ma impieghino dilemmi etici e morali ha aumentato la complessità dei mondi rappresentati.
Io la trovo una direzione particolarmente affascinante del genere, che spero continui: un’enfasi sulla storia permette a un prodotto di non ancorarsi a concetti che nella nostra era sono sottoposti a costante discussione e cambiamento, e durare nel tempo.
Lo stato del videogioco in Italia, fra incomprensioni e dibattito
Il videogioco è tuttora reputato un genere minore a livello accademico? Quali sono le considerazioni di uno studioso del settore?
Il gaming è un settore relativamente nuovo nel mercato dell’intrattenimento, e anche se ci sono fondamenta artistiche dalla sua nascita, è anche vero che come abbiamo discusso prima, l’attenzione verso una maggior profondità nella narrazione (o nell’estetica) è un qualcosa di piuttosto recente. Si tratta anche di una questione di educazione: la formazione nel campo, ad esempio, negli Stati Uniti è decisamente più diffusa, dove in Italia per avere un’educazione sullo sviluppo videoludico puoi affidarti solo a scuole private.
Il settore accademico dell’umanistica in generale tratta il videogioco come “il cugino strano”. È una forma nuova e comunque molto controversa per via di molte delle sue produzioni. Esistono sicuramente, ad esempio, problematiche nell’essere così incentrati su temi di violenza, ma anche sul fatto che ci siano problemi di dipendenza videoludica su più livelli. Molta disinformazione, tanti preconcetti da sdoganare.
In più, il mondo accademico è piuttosto confuso sullo statuto obbligatoriamente interdisciplinare che un oggetto multimediale come il videogioco possiede: filosofia, narratologia, psicologia, programmazione e informatica si intersecano obbligatoriamente, molto di più che per quanto riguarda narrative contemporanee lineari o la settima arte.
D’altro canto, questa resistenza, se così possiamo chiamarla, allo studio del videogioco come oggetto artistico mostra paralleli molto forti su come per anni la serie televisiva sia stata considerata un genere minore, o comunque non meritevole di un’analisi approfondita, mentre ora è più che accettato nei contesti accademici.
Nonostante una certa opposizione, stiamo comunque osservando un rinascimento anche in Italia dei Game Studies. Altrimenti non sarei qui a parlarne.
In un grande mercato come quello videoludico, sembra esserci poco sviluppo del settore in Italia. Si tratta solo di apparenza, o c’è verità?
Sì e no. Ci sono tanti sviluppatori in Italia, e anzi consiglio di dare una visione al sito gamedevmap, una mappa interattiva del pianeta dove vengono mostrati i principali studi di sviluppo sul territorio. Si vedrà che il territorio italiano in realtà ha le sue aziende, fra cui solo per citarne una, Santa Ragione.
I budget per sviluppare giochi sono però più bassi di altri luoghi, e spesso le aziende di sviluppo non sono solo aziende di sviluppo, ma collaborano con case di produzione, aziende e uffici di vario tipo. C’è in generale meno indipendenza, e un fattore di rischio più elevato: un prodotto “sbagliato” o che non ottiene il successo desiderato porta facilmente alla chiusura dello studio.
Non c’è assenza di sviluppatori in Italia, ma di sicuro non c’è nemmeno molto spazio per permettergli di crescere.
Figure specializzate, direzionare la narrazione, tendenze future, e l’importanza dell’inclusione nel mondo videoludico
Assistiamo a un grande ampliamento nel mercato videoludico per figure precedentemente esterne al campo dell’informatica o del mondo digitale in generale. Si tratta di un campo ristretto a molti programmatori e pochi esperti di altre materie?
Ultimamente ho partecipato a un convegno in Giappone sulle narrazioni digitali interattive. Fra i miei colleghi ho avuto il piacere di notare individui appartenenti ai settori più svariati. C’erano sì programmatori e Game Designer, ma anche moltissimi individui con background in cinema, storia, filosofia, tantissimi pedagogisti.
Come ho detto, il medium videoludico è interdisciplinare, richiede per uno sviluppo conscio e inclusivo un approccio comunitario, che non appartenga solo a una determinata categoria lavorativa. Il videogioco moderno deve integrare tantissime competenze, il ciò dà rilievo a professioni come il Narrative Designer.
Le Branching Narratives offrono al giocatore un certo numero limitato di scelte da compiere all’interno della storia. Una delle critiche più fervide a questo tipo di narrazione è la mancanza di possibilità da parte dell’autore (o degli autori) di veicolare un messaggio preciso. C’è verità in questa affermazione?
No. Non davvero. La Branching Narrative è un sistema mediano fra due tipologie di narrazione videoludica. Giochi come The Sims hanno quella che si chiama una “narrativa emergente”: il giocatore costruisce la storia esclusivamente da solo, usando l’insieme di strumenti che il gioco gli dà, non esiste un messaggio o una trama definita. Oppositamente esistono le narrazioni esclusivamente lineari, come The Last of Us, dove il giocatore controlla il personaggio, ma non ha alcun potere decisionale su cosa accade all’interno della storia, e dove il messaggio è univoco e ben delineato.
Per quanto riguarda proprio le Branching Narratives, la situazione è più complicata, ma non scevra da una responsabilità autoriale. Se si considera Life Is Strange e i finali prima presentati, nonostante non esista il “finale giusto”, esiste sicuramente quello verso cui l’autore desidera direzionare il giocatore, anche solo per il fatto che uno dei due dura quasi otto minuti, prevede numerose location e animazioni, mentre l’altro ne dura tre, è molto più statico e presenta solo due ambientazioni.
Esiste però un rapporto inversamente proporzionale fra quanto un giocatore può scegliere e il livello di definizione della trama. Detroit: Become Human ha moltissimi finali (circa ottanta, considerando ogni variazione) ma alcuni sono evidentemente più sviluppati e “corretti” di altri. L’autore può comunque veicolare un messaggio anche solo attraverso lo sviluppo più esteso di una certa linea di storia che un’altra.
Forse con lo sviluppo dei modelli di intelligenza generativa all’interno della narrazione procedurale si verrà a creare un genere ancora più complesso di branching narratives, ma non è un qualcosa su cui possiamo teorizzare troppo nei prossimi tempi. Ci vorranno anni, se tutto va bene.
Da un punto di vista di investimento del giocatore e di immersione, la migliore soluzione è quella di una selezione accorta delle scelte che gli si offre. Poche, ma importanti. L’importante è avere bene in testa il messaggio che si desidera lanciare. Troppe scelte rischiano di danneggiarlo. Un esempio è proprio l’episodio interattivo della serie di Black Mirror, Bandernsatch: una scelta che viene offerta all’inizio allo spettatore/giocatore è di collaborare o no con una grande azienda per aiutare il protagonista a sviluppare il suo videogioco. Scegliere la strada di unirti alla compagnia risulta in un finale frettoloso in cui viene detto allo spettatore che il gioco è risultato in un flop.
Per concludere, quali sono le linee di tendenza per il futuro dei videogiochi, da un punto di vista di attenzione alla trama e alla rappresentazione di diversità?
Io sono ottimista. Penso che una rappresentazione variegata diventerà qualcosa di sempre più normalizzato. Come in ogni fenomeno sociale, ci saranno oppositori, ma non credo l’avranno vinta. Stiamo attraversando un periodo di riscrittura storica e di rivendicazione dei diritti per le minoranze, che non vede resistenza da un mercato che è anzi interessato economicamente a continuarlo, e questo è in sé un bene.
Per quanto riguarda la questione dello storytelling, io spero acquisisca sempre maggiore rilevanza quel tipo di narrazione in cui il personaggio comunica al giocatore il proprio profilo psicologico, intervenendo direttamente sulla realtà. Penso a Freeride, un gioco che costruisce un profiling basato sulle scelte del giocatore, o a Swipe Night, un gioco realizzato da Tinder e associato all’app in cui vengono creati match per partner potenziali in base alle scelte narrative fatte dall’utente.
In ultima sede, concludo su questa affermazione: uno storytelling empatico ha il potere di impattare molte aree della nostra vita, più di quante pensiamo, inclusa una maggiore considerazione di come le nostre scelte influiscono sulla vita degli altri.
Roberto Pedotti e Mauro Colarieti
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