Che cosa ci troveremmo davanti, se improvvisamente fossimo catapultati nel bel mezzo di un banchetto quattrocentesco?
Una grande varietà di ricette, senza dubbio. Ci verrebbero servite grandi quantità di cibo, e soprattutto di carne, cucinato in cento modi diversi – modi che ci apparirebbero assai curiosi – e presentati sui piatti in modo decisamente spettacolare.
Ce lo dimostrano, in primo luogo, i ricettari di Maestro Martino, cuoco comense vissuto nella seconda metà del XV secolo. Nel suo Libro de arte coquinaria, Martino dà consigli su come allestire un buon banchetto, elencando un gran numero di ricette diverse e presentando innovazioni significative rispetto alla tradizionale cucina medievale.
Ad esempio, Martino distingue i vari tipi di carne, a seconda dell’animale e del taglio, indicando per ciascuno una modalità di cottura diversa, a seconda delle proprie caratteristiche: così, caprioli, lepri e cinghiali sono migliori se cotti in acqua e vino e serviti con una salsa a base di pepe, mentre fagiani, gru e oche danno il loro meglio se arrostite. Ad un lettore moderno può apparire un concetto banale, ma in realtà nel medioevo si cuocevano le pietanze in modo più o meno casuale, senza tenere troppo le diversità tra i vari tipi di carne.
Inoltre, rispetto ai ricettari medievali, Martino dà grande importanza alla presentazione dei piatti: si cerca di stupire i commensali con preparazioni spettacolari, con l’utilizzo di colori e decorazioni varie, ma anche “mascherando” una vivanda per farla sembrare qualcos’altro (ad esempio, la minestra di uova di trota che sembra di piselli).
E in effetti, la spettacolarità era uno degli elementi portanti dei banchetti e dei conviti rinascimentali. Innanzitutto, non esisteva la distinzione, per noi fondamentale, tra antipasti, primi e secondi piatti; il convito si divideva in vari servizi, che si susseguivano senza un ordine logico, e il cui numero dipendeva dalla fastosità del banchetto e dal prestigio dei convitati.
Ogni servizio era introdotto da spettacoli di vario genere, con ballerini, attori o figuranti, e accompagnato dalla musica. Nell’età dell’Umanesimo non potevano mancare riferimenti alla mitologia classica e così si ha notizia di banchetti durante i quali alcuni figuranti, mascherati da divinità classiche, presentavano i piatti declamando poesie appositamente composte.
Spettacolare era anche la presentazione di alcune vivande, come ad esempio la selvaggina arrostita, spesso coperta con foglie d’oro. Un altro esempio, riportato da Martino, riguarda la preparazione e la presentazione del pavone: una volta lessato e arrostito (la sua carne era piuttosto coriacea), l’animale intero veniva ricoperto delle proprie piume, mentre nel becco aperto veniva sistemata dell’ovatta imbevuta di alcol, alla quale veniva dato fuoco.
Ma come si presentava una tavola apparecchiata? Innanzitutto, la tavola era generalmente coperta da un tappeto, a sua volta sovrastato da numerose tovaglie; alla fine di ogni servizio, veniva tolta anche la tovaglia, così che i commensali potessero mangiare su quella pulita che stava sotto. Non c’erano piatti singoli, né posate: i commensali prendevano le vivande da dei grandi piatti centrali, dove erano state tagliate in pezzi dal trinciatore, e le portavano con le mani a dei taglieri. Solo in caso di zuppe e minestre si faceva uso di scodelle e cucchiai. I bicchieri, o meglio, le “tazze con piede” venivano riempite dai servitori con diversi tipi di vini, a seconda della richiesta del commensale, e talvolta era lo stesso sescalco, ovvero l’organizzatore dell’intero banchetto, che fungeva anche da coppiere.
Una realtà ben diversa dalla nostra, sia nelle tipologie di piatti serviti che nell’organizzazione della tavola. Eppure, già nel Rinascimento si notava quell’attenzione e, quasi, quell’amore per la tavola e per la convivialità caratteristiche della nostra cultura, mentre nel resto d’Europa si rimaneva legati alla tradizione culinaria medievale per tutto il XV secolo.
Erica Nocentini