Ho intervistato Bruno Bonetti – primario del reparto di Neurologia e della Stroke Unit in AOUI di Verona all’Ospedale di Borgo Trento – per capire quali conseguenze sta provocando nella “normalità” della vita ospedaliera il Covid 19.
Prima di tutto vorrei chiederti come vive Bruno Bonetti, da medico, ma soprattutto come persona, questa emergenza che ci sta in qualche modo cambiando tutti.
Be’, premetto che se lavorassi in Terapia intensiva o in Malattie infettive o vivessi a Bergamo la risposta sarebbe diversa.
Come persona la vivo meglio della gente comune, perché sono informato e so cosa è pericoloso e cosa non lo è. E devo dire che non ho paura del contagio; in parte perché razionalmente non rappresento una categoria a rischio di morte e in parte per fatalismo (che penso sia una deformazione che molti sanitari hanno).
Per quello che riguarda il lavoro, ovviamente una certa apprensione c’è, ma nella mia realtà e per il ruolo che svolgo il problema principale è gestire l’ansia e la paura dei colleghi. Stare attenti sì, ma niente panico in ospedale, è un lusso che non ci possiamo permettere, soprattutto ora.
Tu sei primario di un reparto, come quello di Neurologia, che non può concedersi pause, Coronavirus o meno. Cosa è cambiato in questi mesi iniziali di quarantena?
Si può dire che la Neurologia lavori con i pazienti acuti (ictus) in reparto e con pazienti cronici (demenze, Parkinson, sclerosi multipla, epilessia per citare quelli più noti) in ambulatorio. Ovviamente i primi continuano ad arrivare (anche se ora parecchi di meno, per la paura del contagio); per i pazienti ambulatoriali invece ci siamo organizzati fin da subito con consulenze telefoniche o video-chiamate per evitare loro di venire in ospedale (se non per urgenze), ma al contempo non abbandonarli sia professionalmente che umanamente.
In generale, in Azienda la situazione è sotto controllo per quanto riguarda l’occupazione di posti letto nei reparti dedicati a Covid 19 sia in ambito non intensivo che intensivo.
Parlavi di paura di contagio: in che modo sta influendo?
Il Pronto Soccorso di Borgo Trento è irriconoscibile rispetto a un mese fa… praticamente vuoto, mai successo.
Sicuramente non vengono più i pazienti che non sarebbero dovuti venire nemmeno prima: codici bianchi e verdi che potevano essere gestiti tranquillamente sul territorio dal medico di medicina generale. Era una contraddizione che non aveva ragione di esistere in Pronto Soccorso, ma che nessuno era mai riuscito a risolvere.
Il Covid 19 sì.Purtroppo anche i codici gialli sono drasticamente diminuiti, tra questi ictus e infarto del miocardio; diminuzioni tra il 30 e il 50%. E si tratta di patologie tempo-dipendenti: se arrivano tardi (oltre le 4-6 ore) non riusciamo più ad aiutarli.
Eppure da un mese e mezzo a questa parte il paziente con queste patologie viene solo quando è molto grave, e in ritardo, per paura di contrarre il virus in ospedale!
Alla fine dell’emergenza penso che ci ritroveremo con molti pazienti disabili o con cuori che non funzionano, per i quali non potremo fare più nulla.
Questo è decisamente gravissimo. In che modo possiamo tranquillizzare le persone che, avendo sintomi preoccupanti, sono restie a chiedere aiuto agli ospedali?
Dicendo di venire in ospedale solo quando serve, il resto dei problemi non urgenti aspettano. Ma i pazienti non rischiano il contagio intra-ospedaliero, perché sono stati creati percorsi appositi per pazienti con sospetto Covid distinti da quello di altre patologie.
Abbiamo stilato una procedura interna distinguendo se un paziente proveniente dal Pronto Soccorso sia già Covid+ (viene ricoverato nell’apposito reparto) o Covid-; in quest’ultimo caso eseguiamo all’ingresso radiografia del torace e tampone se ha febbre e difficoltà respiratorie. Tutti i nuovi pazienti vengono ricoverati in stanze isolate e viene monitorata la temperatura corporea per i primi due giorni.
Una curiosità: sei stato sottoposto al tampone, essendo tu un medico, e quindi parecchio esposto alla possibilità di contagio da Covid 19?
L’Azienda Ospedaliera ha programmato di eseguire i tamponi per Covid a tutto il personale sanitario, con ordine di priorità legato al maggiore rischio di esposizione. In effetti la Neurologia non è una realtà altamente esposta, se non quando eseguiamo consulenze in Pronto Soccorso per pazienti con patologie neurologiche acute.
Secondo te, perché, visto che si parla di tanti casi di portatori asintomatici, non si fa il tampone per il Covid 19 a tutti?
Fare il tampone a tutti: facile da dire, difficile da fare! Primo per difficoltà tecniche (limitata capacità di eseguire tamponi legata al numero di macchine) ma soprattutto per difficoltà scientifiche. Mi spiego: se oggi ho il tampone negativo significa che OGGI sono negativo.
Ma se continuo a lavorare in ambiente a rischio (ospedale), domani o dopodomani posso contrarre il virus.
Facciamo tamponi a tutti i sanitari tutti i giorni, ogni 2-3 giorni?
E per quanto tempo?
Insostenibile.
Oggi come oggi nessuno sa dire quanto a lungo dovremo convivere con il Covid 19 e neppure se si presenteranno altre emergenze analoghe in futuro. Se Bruno Bonetti tornasse indietro, metterebbe ancora al mondo figli?
Assolutamente sì! La vita deve continuare. Senza figli non vedo un futuro. Questa emergenza ce lo dovrebbe insegnare: lavoriamo e rischiamo in ospedale per vincere la battaglia per permettere loro di andare avanti; non lo facciamo per noi padri e madri. Almeno io la penso così.
Un medico, avvezzo ad affrontare ogni giorno situazioni che richiedono un certo “pelo sullo stomaco”, è in grado di abituarsi proprio a tutto?
Domanda difficile, ma assolutamente giusta. Penso che fare il medico implichi prendere decisioni e fare scelte che hanno ricadute sulla vita degli altri. Questo è il nostro lavoro. Sempre, tutti i giorni. Ovviamente la scelta diventa più difficile quando devi decidere tra vita e morte, ma ogni medico deve saper affrontare questo problema, perché succede molto spesso. Certo, in condizioni di emergenza il problema diventa più impellente per la carenza di posti letto in strutture intensive e per la numerosità dei pazienti (penso all’esperienza dei colleghi di Brescia e Bergamo); questo comporta prendere decisioni velocemente, quindi difficili da elaborare per il sanitario e con poco o nessun tempo per poterle condividere con i pazienti o almeno i loro parenti. E comporta anche un peso psicologico per chi resta (medici, infermieri, figli di pazienti) che si accumula e di cui pagheremo il prezzo quando tutto questo sarà finito.
Perché tutto ha una fine; sia le cose belle (purtroppo) che quelle brutte (per fortuna).
Claudia Maschio