Tornare sugli spunti tracciati da Luigi Pirandello si rivela ancora oggi un’occasione di ricerca e profondo arricchimento. Attraversare la viva voce delle sue opere, nonostante la distanza cronologica, significa intraprendere un esercizio di attualità. Da qui l’importanza di ripercorrere alcuni dei nodi fondamentali di quella che lo stesso Pirandello ha definito la sua summa poetica. «La sintesi completa di tutto quello che ho fatto e che farò»: Uno, nessuno e centomila.
Abitare l’opera di Luigi Pirandello significa andare incontro ad un’ininterrotta apertura di nuovi interrogativi, piuttosto che ad una confortante opera di rinvenimento di risposte. Certo, ciò non significa che non si possano scovare nelle proposte dello scrittore siciliano saldi riscontri alle proprie esigenze esistenziali. Ma l’imbattersi in eventi e processi che scardinano la presunta fissità del reale – tipica esperienza della produzione pirandelliana – suppone o struttura una certa attitudine. La disponibilità ad intendere l’esistenza umana nella sua dimensione metamorfica, cangiante, polifonica, complessa. Anche quando l’oggetto in questione è ciò che generalmente viene inteso come il più inscalfibile punto fisso, unitario, immutabile della nostra vita: l’identità.
Si tratta di una riflessione che attraversa, più o meno marcatamente, l’intera produzione di Luigi Pirandello, e che culmina nel suo ultimo romanzo. Uno, nessuno e centomila, ritenuto dal premio Nobel per la letteratura «la sintesi completa di tutto quello che ho fatto e che farò».
UNO, NESSUNO E CENTOMILA
Vitangelo Moscarda, protagonista dell’opera, è un uomo come tanti di ventotto anni. Figlio di un ricco banchiere, dal quale ha ereditato un lauto patrimonio, conduce un’esistenza ordinaria. Moscarda è un individuo, un “io” determinato dalla necessità della natura e dallo sguardo culturale della società. Come lo siamo tutti. Nasciamo in un certo modo, con un certo corpo, in un determinato contesto. Siamo gettati nel mondo, a prescindere dalla nostra volontà:
Nascere è un fatto. Nascere in un tempo anziché in un altro […]; e da questo o da quel padre, e in questa o quella condizione; nascere maschio o femmina; in Lapponia o nel centro dell’Africa; e bello o brutto; con la gobba o senza gobba: fatti. […] Tempo, spazio: necessità. Sorte, fortuna, casi: trappole tutte della vita. Volete essere? C’è questo. In astratto non si è. Bisogna che s’intrappoli l’essere in una forma, e per alcun tempo si finisca in essa, qua o là, così o così. E ogni cosa, finché dura, porta con sé la pena della sua forma, la pena d’esser così e di non poter più essere altrimenti.
Una volta insediati nei sempre più ampi centri concentrici della vita comunitaria, la nostra identità viene definita – più o meno convenzionalmente – anche dagli altri. Secondo norme, credenze, valori e simboli, in maniera più o meno profonda, anche l’assetto sociale-comunitario concorre alla strutturazione della nostra identità.
IDENTITÀ, NATURA E SOCIETÀ
Ciò che siamo per natura si intreccia con ciò che di noi emerge dal rapporto con gli altri. Ecco, allora, che Pirandello definisce, nel saggio L’Umorismo, l’identità con un potente ossimoro: lo «spontaneo artificio interiore, frutto di segrete tendenze o di incosciente imitazione».
Tornano qui fondamentali, le parole di raro pregio che il filosofo Remo Bodei dedica alla questione:
L’identità risulta spontanea in quanto inconsapevole somma e confluenza di condizionamenti fisici e di forze sociali; artificiale, in quanto non corrisponde ad alcun paradigma immobile, da sempre “perduto”, di “natura umana”.
Se l’identità umana affonda le radici in questo fondo ossimorico, si capisce bene perché un atto quotidiano, apparentemente insignificante, sconquassi irrimediabilmente la vita di Vitangelo Moscarda. E, potenzialmente, anche quella di chi – attraversando le pagine di Uno, nessuno e centomila – si inerpica tra gli eventi che lo vedono protagonista. A volte, da un dettaglio si originano squarci. In questo caso è una semplice riflessione en passant della moglie Dida, a gettare Moscarda in uno stato di travolgente e abissale spaesamento. Intento a specchiarsi per tentare di intercettare l’origine di un insolito fastidio alla narice, l’uomo è investito dalle parole della consorte. Che, riferendosi al naso del marito, constata distrattamente: «Credevo ti guardassi da che parte ti pende».
LA DISGREGAZIONE DELL’IDENTITÀ
Ed ecco il dettaglio, la scaturigine dello squarcio, nell’esplosione di una “scoperta” su di sé. Non è il difetto fisico in quanto tale a destabilizzare Vitangelo Moscarda. A questo seguirà la conoscenza di ulteriori imperfezioni corporee mai “scoperte”, fino ad ora, da chi quel corpo lo è. Le sopracciglia circonflesse, le orecchie sporgenti asimmetricamente, una gamba leggermente più arcuata dell’altra.
Tratti del sé che, in ventotto anni, non erano mai stati notati da Vitangelo Moscarda, per questo morso dalla presa di un pungente interrogativo.
Se per gli altri non ero quel che finora avevo creduto d’essere per me, chi ero io?
Ecco emergere la disgregazione dell’identità, quanto di più irriducibilmente monolitico, univoco pretendiamo di avere nella vita. L’io che si scopre essere un altro-io, per quanto sempre lo stesso io, nel relazionarsi con l’altro da sé.
IN CAMMINO VERSO L’IDENTITÀ
Questione atavica, ancestrale, originaria: il rapporto tra il tutto e le parti, tra l’unità e la molteplicità, tra la stasi ed il mutamento. Problema per il quale varrebbe la pena di riconsiderare, in luce diversa, i cosiddetti presocratici. E, tra questi, millenni prima di Pirandello, era stato Eraclito l’oscuro a sentenziare in uno dei suoi più famosi frammenti:
Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lògos.
Vitangelo Moscarda, che riscopre a ventotto anni nuovi aspetti del sé. I più evidenti – trattandosi di manifesti tratti corporei – da figurarsi tutto il resto. Cosa c’è ancora da scovare nell’intraprendere il proposito «d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me?». Molto, e in maniera asintotica ed ininterrotta, mai del tutto conclusiva. Perché, constata il personaggio di Luigi Pirandello:
Presto l’atroce mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch’io ero non solo per gli altri ma anche per me, tutti con questo solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà, tutti dentro questo mio povero corpo ch’era uno anch’esso, uno e nessuno ahimè.
Uno, nessuno e centomila. Perché pur percorrendo l’intera via non è possibile scorgere i confini dell’anima. Perché all’uomo non è dato tangere l’assoluto, ma solo attingere dall’assoluto. E si rivela, quindi, indebita qualunque assolutizzazione del reale che opprime la vita. Perché è la vita stessa, nel suo flusso, a farci riscoprire uno, nessuno e centomila. Il divenire metamorfico, cangiante, polifonico, complesso. Ed ecco che Vitangelo Moscarda intraprende un itinerario dissacrante. Volto a scardinare l’immagine fissa che la gente ha di sé ed a riscoprire in continue morti e rinascite, altri tratti del sé. Riemergono l’apollineo ed il dionisiaco. Ritorna il mitico cantore Orfeo che scende nell’Ade – confrontandosi con la morte – per poi risalire, nell’aldiquà, rinnovato.
LUIGI PIRANDELLO: RINASCERE ATTIMO PER ATTIMO
L’approdo della speculazione di Luigi Pirandello non è un mero ed ingenuo relativismo, come può sembrare a primo acchito. Ma un invito, ancora oggi, dalla sconcertante attualità. L’invito ad accogliere il mondo nella sua complessità. A farsi carico del flusso diveniente della vita che travolge, dal punto di vista umano, ogni pretesa assolutistica. A farci caso, non andando chissà quanto lontano, siamo uno, nessuno e centomila anche in questo momento. Io non sarò lo stesso io per tutti i lettori. Così come non sarò più lo stesso io che ha scritto queste poche righe – per quanto impercettibilmente, qualcosa sarà cambiato. Eppure, sono sempre lo stesso io. Così come si spera che chi avrà la pazienza di leggermi, sarà un altro io, rinnovato, dopo la lettura.
La ricerca umana è un’asintotica ed ininterrotta opera di approssimazione alla complessità dell’intero. Saper vivere il proprio parziale morire per poi parzialmente rinascere, ci appartiene in quanto uomini. Significa aprirsi all’altro da sé e all’altro del sé, impregnarsi di mondo da frammenti del mondo per uscirne rinnovati. Sempre gli stessi, sempre diversi. Uno, nessuno e centomila. Come Vitangelo Moscarda:
E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo.
Luigi Pirandello, oggi.
Mattia Spanò